Antieuropa

DANTE, GUELFO O GHIBELLINO?

Si è già parlato della condizione dell’Impero nel momento storico in cui Dante visse. Con la morte dell’ultimo rampollo degli Hohenstaufen, Corradino di Svevia, ignobilmente decapitato a Napoli dagli angioini (1268), si esaurisce la politica imperiale degli Svevi che aveva avuto ambizioni europee, in nome della missione politica sovrannazionale che questi imperatori, legittimamente, riconoscevano all’Impero.

Dopo gli Hohenstaufen la politica imperiale si ridusse nei limiti degli interessi tedeschi ad eccezione della discesa in Italia di Enrico VII, che fu infruttuosa per la sua morte prematura.

Questo non significa affatto, comunque, che l’istituzione imperiale fosse scomparsa come idea-forza dalla coscienza dei contemporanei, come lo stesso Dante dimostra, né solo perché la politica imperiale non corrispondeva alle sue speranze, si può accusare questo geniale pensatore e poeta di anacronismo o, peggio, di adesione ad un’idea utopistica.

L’idea imperiale ai tempi di Dante era ben viva e presente e tanto operante non solo da giustificare le sue prese di posizione ma da renderle le uniche concepibili in quel momento politico.

Che Dante abbia aderito, nel periodo della sua attività politica fiorentina, alla fazione dei guelfi bianchi è indubbio, ma ciò va considerato assolutamente relativo rispetto al suo pensiero politico che trova la sua formulazione più compiuta nel De monarchia e in alcuni passi della Divina Commedia.

Del resto ben presto Dante si staccò da qualsiasi fazione politica e infatti non mancarono nella Commedia spunti polemici tanto contro i guelfi che contro i ghibellini.

Definire Dante ghibellino, dando a questo termine il significato di aderente alla corrente politica che ai suoi tempi si riconosceva tale, ci sembra riduttivo e così ci sembra tale la definizione di Giorgio Petrocchi che indica in Dante un “militante del ghibellinismo italiano”. [1]

Ridurre l’azione politica di Dante nei termini angusti dell’attività del gruppo ghibellino italiano non corrisponde al reale valore che ebbe la sua partecipazione teorica al dibattito politico fra guelfi e ghibellini.

Si vuole affermare, cioè, che gli interessi di Dante esulavano dai limiti delle fazioni locali nella penisola e si appuntavano su un superiore ideale imperiale, forgiato sul modello storico dell’Impero Romano e comprendente l’intera comunità cristiana europea. In quest’ottica occorre ridimensionare anche l’entusiasmo di Dante per l’impresa di Enrico VII, che indubbiamente aveva un’importanza storica di rilievo, se fosse stata condotta a termine.

In Paradiso VI, il famoso canto di Giustiniano, Dante è esplicito nel prendere le distanze dalle due fazioni dei guelfi e dei ghibellini:

<<Faccian li Ghibellini, faccian lor arte sott’altro segno; ché mal segue quello sempre chi la giustizia a lui diparte e non l’abbatta esto Carlo novello coi Guelfi suoi; ma tema delli artigli ch’a più alto leon trasser lo vello.>>

Ci sembra opportuno citare a proposito di questi versi il commento di Landino: “se i ghibellini vogliono essere sedizioni e partigiani, non facciano tale arte sotto il segno dell’Aquila, che debbe essere el tutto e non la parte; imperò che mal seguitano tal segno, cioè non rettamente seguitano l’Aquila i ghibellini, perché dipartono lui e la iustitia; imperò che ogni volta che l’Aquila, che debbe esser comune a tutti, si fa partigiana de’ ghibellini, essa si parte dalla iustitia”, né, vuol dire Dante, può abbattere il simbolo imperiale Carlo d’Angiò con i suoi guelfi, ma anzi è bene che tema gli artigli dell’aquila capaci di domare leoni ben più nobili di lui.

[1] IL MEDIOEVO Edizioni Settimo Sigillo

[2] Monarchia. Testo latino a fronte – Alighieri Dante Libri